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Nick: ^LETTiE^
Oggetto: x CRISTY85^
Data: 21/9/2003 14.57.54
Visite: 78



Il tema trattato in questo percorso multi–disciplinare è la curiositas intesa come desiderio di conoscere, desiderio che, a sentire Cicerone, è innato nell’uomo:

Tantus est innatus in nobis cognitionis amor et scientiae ut nemo dubitare possit quin ad eas res hominum natura nullo emolumento invitata rapiatur. (…) Mihi quidam Homerus huiusmodi quiddam vidisse videtur in fabulis quas de Sirenum cantibus finxit. Neque enim vocum suavitate videntur revocare solitae esse eos qui praetervehebantur, sed quia multa se scire profitebantur ut homines ad earum saxa discendi cupiditate adhaerescent. Ulixem enim pollicentur,si ad se veniat, doctiorem postea ad patrias reversurum oras. Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus vir irretitus teneretur: scientiam pollicentur, quae ei carior patria erat. (De finibus, 5, 48)

È tanto innato in noi l’amore della conoscenza e della sapienza che nessuno può dubitare che la natura umana è tratta a queste cose non invitata da nessun allettamento.(…) A me sembra che Omero abbia pensato un qualcosa del genere nelle leggende che cantò nei versi delle Sirene. Non infatti con la dolcezza dei canti sono solite richiamare quelli che passano, ma poiché promettevano di sapere molte cose affinché gli uomini si accostassero ai loro scogli per l’amore del sapere. Promisero infatti che se Ulisse si fosse avvicinato sarebbe ritornato ai lidi patrii più sapiente. Omero vide che la leggenda non poteva essere creduta se un uomo tanto illustre irretito da canzoncine: promettevano la sapienza, che a lui era più cara della patria.

Il mito delle sirene, viene, in questo passo, interpretato come una metafora dell’attrazione che la conoscenza esercita sull’uomo; non è un caso che il protagonista sia l’eroe greco che più di ogni altro rappresenta nell’immaginario antico e moderno la curiositas umana.
E proprio Ulisse è il protagonista indiscusso della prima sezione del nostro ampio percorso, sezione che, a sua volta, analizza tre temi diversi e tuttavia uniti, appunto nel nome dell’eroe del nòstos.
In primo luogo si è pensato di esaminare come la figura di Ulisse abbia ispirato la poesia di tutti i tempi, assumendo diverse sfumature a seconda dell’epoca e dell’ideologia. I testi in esame attraversano le epoche della letteratura dal mondo greco a oggi e mostrano bene come l’uomo polytropos cantato da Omero appartenga a tutti noi, uomini di tutti i tempi, divisi tra nostalgia del noto e tensione verso l’ignoto.

Omero, Odissea, I, vv. 1-10
Sono i celeberrimi versi con cui si apre l’Odissea. Il poeta chiede aiuto alla Musa non più, come nell’Iliade, per narrare un sentimento astratto e le sue conseguenze su una comunità, ma per “cantare” l’uomo per eccellenza, colui che non essendo figlio di dei seppe tuttavia portare il suo essere uomo fino alla sfida con gli dei stessi: Odisseo.

L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo
errò dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia;
di molti uomini le città vide e conobbe la mente,
molti dolori patì in cuore sul mare,
lottando per la sua vita e pel ritorno dei suoi.
Ma non li salvò, benché tanto volesse,
per loro propria follia si perdettero, pazzi!,
che mangiarono i bovi del Sole Iperione,
e il sole distrusse il giorno del loro ritorno.
Anche a noi dì qualcosa di queste avventure, o dea, figlia di Zeus.
(trad. di R. Calzecchi Onesti)

Ulisse viene definito “l’uomo ricco di astuzie”, e di lui viene detto che “errò a lungo sul mare”; viene poi sottolineato che “vide le città e conobbe le menti di molti uomini”, senza mai perdere la speranza di tornare a vedere Itaca e la sua sposa. Il personaggio di Ulisse è già tutto in questo vagare sul mare con lo sguardo rivolto all’orizzonte e il cuore oppresso dal desiderio del ritorno.

Dante, Inferno XXVI: Ulisse
L’incontro con l’eroe greco, messo nel girone dei fraudolenti per l’inganno del cavallo, permette a Dante da un lato di chiarire la differenza tra la visione del mondo pagana e quella cristiana, dall’altro di stabilire tra sé e Ulisse - entrambi esploratori di mondi proibiti – una serie di affinità e divergenze in relazione ai limiti della conoscenza umana. Ulisse narra che al momento di varcare lo stretto di Gibilterra, le “Colonne di Ercole” che rappresentano il limite del mondo conosciuto, i compagni sono colti da dubbi e timori e per convincerli, deve ricorrere a un breve ma abilissimo discorso che li convincerà e al tempo stesso li perderà.

Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: “Quando
mi dipartì da Circe,che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nominasse,
né dolcezza di figlio, né la piéta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi ummani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola dalla qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Marocco,e l’isola de’ Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
dalla man destra mi lasciai Sibilia,
dall’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti all’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
de’ nostri sensi ch’ è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo senza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza”.
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
dei remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già dell’altro polo
vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto dalla luna,
poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e persemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Non ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
chè della nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fè girar con tutte l’acque:
alla quarta levar la poppa in suso
e la propra ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”.

Dante, uomo del Medioevo, non può non condannare il desiderio di conoscenza fine a se stesso di Ulisse ma al contempo avverte la grandezza dell’uomo e lo ammira. Al folle volo di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole viene così conferito un esito tragico, ma quella follia già annuncia i viaggi di Colombo verso il Nuovo Mondo, anticipa il difficile e contrastato cammino della ricerca scientifica e in definitiva, quello di ogni attività umana tesa alla conoscenza e al progresso.

U. Foscolo, A Zacinto

In questo famoso sonetto, Foscolo approfondisce il tema del ritorno in patria, posto a contrasto con la sua eterna condizione di esule. Nelle prime due strofe, paragona implicitamente Zacinto - la patria che non rivedrà mai più - ad un grembo materno "ove il mio corpo fanciulletto giacque", ossia, in senso più lato, alla magna mater, la divinità femminile della Terra e della fertilità presente nella maggioranza delle religioni arcaiche. La fertilità materna della terra di Zacinto e delle altre isole greche, che il poeta definisce "feconde", è contrapposta alla sterilità, espressa, in due modi molto diversi, dal mar Greco (il mare per gli antichi era simbolo di inferitilità, perché non vi crescono vegetali seminati dall'uomo, come invece accade sulla terra) e dalla verginità di Venere, che nacque proprio tra le sue onde. Secondo un’altra interpretazione del testo, basata sulla parola chiave "acque" (sottolineata dalle rime ad eco: "giacque", "nacque", "tacque"), il mare e Venere, che da esso nasce, rappresentano la fonte della vita, in quanto l’acqua è indispensabile agli esseri viventi, mentre la morte è simboleggiata da una privazione di acqua, o comunque di liquido: questo sarebbe il senso della «illacrimata sepoltura» del verso conclusivo.
Nella terza strofa, Foscolo si confronta con Ulisse, il quale, «bello di fama e di sventura» - espressione che coglie il valore formativo e nobilitante di tutte le esperienze vissute dall’eroe, non solo delle imprese gloriose, ma anche e soprattutto della sofferenza - poté tornare in patria dopo un lungo periodo di lontananza, che l'autore definisce «il diverso esiglio»: un esilio diverso da quello del poeta, che a differenza dell'eroe greco non potrà mai più tornare alla sua terra natale.
Avendo pertanto dimostrato come la sua situazione sia diversa da quella di Ulisse, Foscolo conclude la quarta strofa paragonandosi ad Omero (che ha precedentemente citato, chiamandolo «colui che l'acque cantò fatali» Zacinto non avrà mai il cadavere di Foscolo, cui il fato ha prescritto «illacrimata sepoltura» lontano dalla terra natìa, ma sarà celebrata e resa immortale dalle sue poesie, così come Ulisse è celebrato e reso immortale dai poemi omerici.

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque
Zacinto mia, che te specchi ne l’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quell’isole feconde
col suo primo sorriso onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, e il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.

Per quanto riguarda lo stile, bisogna innanzitutto notare lo schema del sonetto: ABAB ABAB CDE CED. Le prime tre strofe costituiscono un unico periodo; questo accentua lo stacco tra esse e l'ultima strofa. Il "né" iniziale si collega al filo del pensiero interiore di Foscolo. Ulisse viene definito «bello di fama e di sventura»: l'aggettivo "bello" ha evidentemente il significato greco di kalÕj kaà ¢gaqÒj, mentre non è chiaro se "di fama e di sventura" abbiano significato di limitazione (bello quanto a fama ed a sventura) o di causa efficiente (la fama e la sventura rendono bello Ulisse). Nell'ultima strofa, il "noi" è un plurale maiestatis. Infine bisogna notare l'aggettivo "illacrimata", che in realtà è una parola piena di lacrime, per la tristezza che sottintende. Il timore di una sepoltura in terra straniera, non confortata dalle lacrime delle persone care, è un tema che ritorna frequentemente nella poesia di Foscolo: nel carme In morte del fratello Giovanni, in particolare, il poeta arriva ad invidiare il fratello, perché, essendo morto prematuramente, viene sepolto in patria, a Zacinto, ed i parenti vanno a piangere sulla sua tomba.
Il ritorno in patria è, per Foscolo, un desiderio irrealizzabile, che gli causa sofferenza; tuttavia la Grecia rappresenta per lui la serenità. Per questo motivo, quando ricorda in una poesia la sua terra natale, il poeta esprime il suo dolore, ma in modo contenuto.



G. Pascoli, L’ultimo viaggio,Le rondini

I Poemi conviviali di Giovanni Pascoli, rappresentati da venti poemetti, fra i quali alcuni furono pubblicati sul Convito, la rivista di Adolfo De Bosis, offrono un esempio del modo come l'autore si atteggia nei confronti del mondo classico, greco in particolare. Questo mondo non è interpretato in modo rigoroso, ma rivive attraverso la sensibilità del poeta, che nelle principali figure di esso trova esempi a conferma delle sue concezioni e delle sue ansie. La nota dominante nell'interpretazione che egli svolge di questo mondo è un senso di tristezza, dovuto alla constatazione di quanto sia effimera la realtà dell’uomo; questa nota pensosa e umana riscatta spesso i vari componimenti dall'eccessiva cura formale e da un certo estetismo presente nella raccolta.
Pascoli immagina che Ulisse, tornato a Itaca, si annoi della monotonia della vita sull’isola: il suo cuore è sul mare, dove lo riportano tutti i ricordi e dove sembrano invitarlo gli uccelli migratori che ogni anno passano sull’isola. Nel decimo anno decise improvvisamente di partire per ripercorrere, in un viaggio a ritroso, tutti i luoghi toccati nelle precedenti peregrinazioni.

E per nove anni egli aspettò la morte
che fuor del mare gli dovea soave
giungere;e sì, nel decimo, su l’alba,
giunsero a lui le rondini, dal mare.
Egli dormia sul letto traforato
cui sosteneva un ceppo d’oleastro
barbato a terra; e marinai sognava
parlare sparsi per il mare azzurro.
E si destò con nell’orecchio infuso
quel vocìo fioco; ed ascoltò seduto:
erano rondini e sonava intorno
l’umbratile atrio per il lor sussurro.
E si gittò sugli omeri le pelli
caprine, ai piedi si legò le dure
uose bovine: e su la testa il lupo
facea nell’ombra biancheggiar le zanne.
E piano uscì dal talamo, non forse
udisse il lieve cigolio la moglie;
ma lei teneva un sonno alto, divino,
molto soave, simile alla morte.
E il timone staccò dal focolare,
affumicato, e prese una bipenne.
Ma non moveva il molto accorto al mare,
subito, sì per colli irti di querce,
per un viotterello aspro, e mortali
trovò ben pochi per la via deserta;
e disse ad un mandriano segaligno,
che per un pioppo secco era la scure;
e disse ad una riccioluta ancella,
che per uno stabbialo era il timone:
così parlava il tessitor d’inganni,
e non senz’ali era la sua parola.
E poi soletto deviò volgendo
l’astuto viso al fresco alito salso.
Le querce ai piedi gli spargean le foglie
roggie che scricchiolavano al suo passo.
Gemmava il fico, biancheggiava il pruno,
e il pero avea ne’ rosei bocci il fiore.
E di su l’alto Nerito il cuculo
contava arguto il su e giù de l’onde.
E già l’Eroe sentiva sotto i piedi
non più le foglie ma scrosciar la sabbia;
né più pruni fioriti, ma vedeva
i giunchi scabri per i bianchi nicchi;
e infine apparve avanti al mare azzurro
l’Eroe vegliardo col timone in collo
e la bipenne; e l’inquieto mare,
mare infinito, fragoroso mare,
su la duna lassù lo riconobbe
col riso innumerevole dell’onde.

L’Ulisse dell’Ultimo viaggio, quindi, non è un eroe, è un uomo colto dal dubbio che le mirabili esperienze vissute siano più un sogno che la realtà; la verifica che si costringe a fare lo conferma nel suo dubbio: tutto è illusione ed è proprio l’illusione che rende accettabile all’uomo l’unica realtà della sua esistenza, cioè la morte. Ma l’eroismo di Ulisse è proprio in questo: nel voler comunque procedere a una verifica, nel non fermarsi all’illusione, nella titanica ricerca della verità.


K. Kavafis, Itaca

Indipendentemente dai riferimenti alla vicenda dell'Odissea in essa contenuti, questa poesia è l'espressione di quello che l'autore considera lo spirito giusto per vivere: Itaca rappresenta la fine del viaggio, quindi può essere letta come simbolo della morte o, semplicemente, dello scopo dell’esistenza.

Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell'irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l'anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d'estate siano tanti
quando nei porti - finalmente e con che gioia -
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d'ogni sorta; più profumi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca -
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull'isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos'altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(trad. di Filippo Maria Pontani)


Secondo il poeta, bisogna augurarsi una vita lunga, ricca di esperienze («mercanzia»), soprattutto se piacevoli («voluttuosi aromi»), ed inseguire la conoscenza («imparare ad imparare dai sapienti»). Non bisogna temere pericoli ed ostacoli, che per lo più sono ingigantiti o addirittura inventati dalla nostra mente, né sprecare la vita troppo in fretta, magari nella ricerca di vane emozioni («non precipitare il tuo viaggio»). Il pensiero che il viaggio terminerà («Itaca tieni sempre nella mente / la tua sorte ti segna quell'approdo») serve appunto per vivere a fondo ma con saggezza i giorni che ci sono concessi. Non si deve però neppure immaginare che la fine del viaggio segni l'inizio di una nuova vita: tutto ciò che si può ricavare dalla propria esistenza deve essere ricavato in questo mondo, perché «Itaca... nulla ha da darti di più».

U. Saba, Ulisse
“Ulisse”, che chiude la raccolta Mediterranee, è una lirica ispirata da un sentimento di serena, coraggiosa accettazione della vita che ha i suoi punti fermi (simboleggiati dal porto illuminato), ma nella sua essenza è ricerca incessante, navigazione verso l’ignoto. Il tema essenziale della poesia è quello ossessivo della solitudine e del rifiuto del conformismo, cioè dell’essere necessariamente come gli altri. Il poeta Saba, come un novello Ulisse, rifiuta la sicurezza del porto e si lascia trascinare al largo dall’amore della vita.
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più a largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

La poesia può essere suddivisa in due blocchi presentati dagli indicatori temporali «Nella mia giovinezza» e «Oggi». Ciò che li caratterizza è il destino del poeta: all’«Ho navigato» della giovinezza corrisponde il «me al largo sospinge ancora» proprio della vecchiaia: il viaggio e la ricerca sono dunque la costante dell’esistenza. Nella prima parte Saba ricorda di quando, ancora giovinetto (probabilmente negli anni che intercorrono tra il 1899, cioè quando terminò gli studi all’accademia di commercio e nautica, e il 1903, quando si stabilì a Pisa), aveva navigato, in qualità di mozzo, nell’Adriatico, lungo le coste della Dalmazia; quel viaggio è qui utilizzato come metafora della vita. Il ricordo si sofferma sugli isolotti, qui con ogni evidenza metafora dei pericoli e delle attrazioni (il male), belli ed insidiosi e abitati da uccelli rari (il bene); la loro scivolosità equivale alla pericolosità delle umane illusioni e dei richiami a cui un giovane non può resistere.
Quegli isolotti con la marea e con l’oscurità della notte si rendono pressoché invisibili e così le navi si trovano a dover orientare le loro vele in senso opposto a quello da cui soffia il vento, per poterli scansare, per evitare di imbattersi in quegli ostacoli mortali. Anche qui possiamo leggere una metafora: quegli scogli potrebbero essere le illusioni umane ed i richiami che tanto attirano i giovani; a volte percepibili dall’uomo e a volte oscuri, essi portano il giovane ad addentrarsi in esperienze talvolta dannose.
Nella seconda parte il poeta scrive di non avere più paura di quegli scogli, di quegli ostacoli che un tempo tentava di scansare; nella sua piena maturità («Oggi») egli vive «in quella terra di nessuno.»
Qui si allaccia il ricordo del porto, simbolo di pace, di riposo e di sicurezza, quel posto dove Saba non può sostare perché egli né vuole né può interrompere la ricerca perpetua che aveva avviato nella sua giovinezza; il porto è, la sicurezza delle sue luci sono per gli «altri», per chi vuole ritirarsi in una tranquilla vecchiaia. Saba non si può fermare, il suo spirito ribelle lo porta ad affrontare la vita, non lo lascia accasciare nella vecchiaia, lo fa lottare, abbracciarsi con le gioie e scontrarsi con le insidie.
Il porto con le sue luci, il facile approdo, la sicurezza, non sono per lui; uno spirito ancora non domato, tuttora curioso di conoscere e di provare nuove esperienze e nuove emozioni, l'amore della vita che pure ha subito tante dolorose sconfitte, lo spingono al largo, a non accontentarsi di facili approdi e di territori già esplorati e senza rischi.
La lirica è rappresentata da un'unica strofa di tredici endecasillabi non legati da alcun sistema di rime, assenza compensata dall'importante parola–rima «largo» ai versi otto e undici, da una ricca sequenza di enjambements: raro/un uccello; al sole/belli; l’alta/marea; il porto/accende.
Il nucleo tematico, il viaggio e la continua ricerca del poeta, è rivelato negli ultimi versi e la chiave interpretativa è già nel titolo, il quale suggerisce l’affinità del destino di ricerca che unisce Saba ad Ulisse. Egli intende affermare il proprio impegno morale di ricerca, che passa attraverso il rifiuto delle soluzioni facili e scontate (le luci del porto) che il poeta lascia agli altri.Il poeta paragona il proprio inquieto e avventuroso amore della vita allo spirito di ricerca che spinse Ulisse attraverso i mari. Gli isolotti che con la loro bellezza e insidiosità, sono punto di appoggio di uccelli rari, rappresentano la solitudine e la compresenza di male e bene tipiche della ricerca illimitata.Nel viaggio della vecchiaia il poeta vive in sé ed elegge a suo regno «quella terra di nessuno». La solitudine in questo modo si accentua e si pone come auto–esclusione.
La seconda parte della poesia segna, infatti, un netto contrasto tra gli uomini che si fermano alle facili sicurezze che il porto può offrire e il poeta che è al largo, avendo scelto gli spazi del mare e dell’incognito che esso simboleggia. Il viaggio, proprio perché nasce da uno spirito che non è stato annullato dal male, ma è alimentato dall’amore legato al dolore della vita, non può conoscere soste e tende all’infinito.

Ti ho copiato tutta la sezione che ho portato su Ulisse all'esame.Cmq se ti serve qualke altra info o qualche altro mito fammi sapere.Ciauz PAOLA



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x CRISTY85^   21/9/2003 14.57.54 (77 visite)   ^LETTiE^
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